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Il Babywearing: la riscoperta di una pratica antica
Portare non è un mero atto cinetico, ma racchiude e soddisfa il bisogno di relazione e di contatto di cui madre e bimbo necessitano.
Portare addosso, infatti, migliora lo sviluppo fisico del piccolo, lo espone ad adeguati stimoli sensoriali, ma nel contempo, gli permette di continuare quel legame intrauterino, quell’unione, che la nascita gli ha privato. La necessità di muoversi e spostarsi è insita nell’umanità, ed è una caratteristica di tutte le culture, sia nelle società tradizionali, spesso nomadi, di cacciatori-raccoglitori dove le madri si spostano in cerca di cibo, sia nelle società industrializzate, dove vige la necessità di spostarsi per la spesa, lavoro, scuola ecc.
I bambini di solito, sono trasportati sulle spalle dove, si tengono aggrappati ai capelli dei genitori, sulla schiena o sul fianco, spesso supportati da una sciarpa o fasce per tenerli stretti a sè. 
I supporti utilizzati sono molto diversi fra loro e rispecchiano cultura, modo di vivere, clima, ricchezza o povertà di chi porta.
Jhon Whiting, sociologo e antropologo americano, ha analizzato 250 società rispetto alla relazione tra clima e mezzi per trasportare, e ha notato che in ambienti freddi sono tipici i supporti contenitori, come culle o cesti, i bimbi di solito sono fasciati o comunque vestiti pesantemente, mentre nei paesi più caldi, si usano teli, reti o cinture che legano il bimbo nudo o vestito pochissimo, al corpo di chi porta.
A questa teoria, fanno eccezione gli Inuit dell’Alaska e della Siberia che portano i loro bimbi a contatto pelle a pelle all’interno della propria giacca di pelle. 
Di solito i bimbi sono portati sulla schiena o sul fianco, così che la loro pancia si fissi al corpo di chi porta, solo occasionalmente, sono portati davanti, per esempio quando vengono allattati.
I supporti sono fatti di pelle, cuoio, canapa o altre fibre grezze; e in molte culture vengono denominati con un nome proprio: il Mei Tai in Cina, il Podaegi in Korea, l’Onbuhimo in Giappone, il Bambaran in Guinea, il Pagne in Senegal, il Kanga in Kenya, il Selendanga in Indonesia, il Rebozo in Messico.
In Africa per esempio, i bimbi sono portati sulla schiena bassa con dei teli di cotone colorati, lunghi circa 180 cm senza annodarlo, mentre in Centro America e nelle Ande sono portati sempre sulla schiena, ma in un telo quadrato piegato a triangolo e annodato davanti.
Nelle regioni asiatiche sono usate fasce quadrate a cui sono legati dei lacci lunghi, con cui si annoda il supporto intorno al corpo.
Nel Mali per trasportare i bimbi, si utilizzano strisce di stoffa blu indaco, che ricorda il liquido amniotico, mentre in Groenlandia si utilizza un cappuccio di pelo, l’anorak, dove l’infante si adagia comodamente e passa l’inverno vicino alla sua mamma.
In Cina i porta bebè sono considerati oggetti preziosi, e il loro confezionamento richiede mesi di lavoro, e ancora bilancieri con ceste in Asia e retine create con la corteccia in Amazzonia.
La maggior parte di questi supporti permettono di portare a contatto; un’eccezione costituiscono gli indiani pellerossa che portavano i loro piccoli sulla schiena, su una tavola o in una culla rigida. In queste società, dove portare accompagna la crescita, i piccoli sono portati finchè non camminano da soli, spesso anche da altri membri della famiglia, come fratelli più grandi.

Il babywearing è la pratica di “indossare i propri bambini”, “portarli addosso”, “tenerli addosso”.
Per quanto il termine inglese faccia pensare ad un neologismo, come abbiamo detto la pratica di tenere i proprio piccoli addosso è piuttosto antica.
Il modello di cura risulta diverso nei vari popoli, rispecchiando le singole usanze, tradizioni e stile di vita.
Ciò è confermato nello studio di Lozoff e Brittenham, studiosi americani, che descrivono come nelle società tradizionali e non industrializzate il contatto del bimbo con la madre è più del 50 %, mentre nelle zone industrializzate è più bassa.
Si può parlare, quindi di modello ad alto e basso contatto.
Rivista Italiana on line "LA CARE" Volume 16, Numero 3, anno2019
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