Rivista Italiana online la "Care"

Imprinting di coscienza del neonato e prospettive sulla sua crescita personale:
ipotesi per un precoce ‘Child Keeping’.
Chiara Sozzi
Pedagogista clinica
In un recente scambio con una donna incinta al secondo mese, che fa parte del Gruppo sperimentale che conduco dal 2007, mi sono stupita del fatto che - per come ne parlava – sembrava stesse vivendo la seconda gravidanza solo focalizzata sui disturbi fisici, pur avendo già sperimentato per sei anni una relazione interiorizzata col primo figlio. Ho immaginato che fosse la paura di un eventuale aborto a farle escludere il contatto interno. Solo in seguito ad una cauta verifica, ha fatto emergere che aveva in realtà “parlato” ogni giorno col bambino. Non aveva mai condiviso queste comunicazioni con il compagno, né con le poche persone di famiglia che già sapevano del suo nuovo stato. Per questo non le era venuto di farlo emergere nemmeno con me: non era quello l’aspetto usuale di scambio comunicativo con il mondo. Il caso evidenzia la spaccatura che c’è tra ciò che viviamo nella nostra Coscienza interna e ciò di cui si parla – e quindi “esiste” – nello spazio di noi che interagisce con l’ambiente (Coscienza esterna).

CIO’ CHE NON RIENTRA NEGLI SCAMBI VERBALI NON ESISTE PER LA COSCIENZA ESTERNA INTERSOGGETTIVA

Alcuni elementi della teoria della mente di P. Fonagy (Fonagy, 2005) e di D. Stern (Stern, 1987) offrono spunti per un’ipotesi di quello che potrebbe esserci finora accaduto, come conseguenza del modo in cui avvengono l’imprinting di coscienza e lo sviluppo psicologico del neonato (cfr. Sozzi, 2011, pp.52-53). Nei loro presupposti sulla comunicazione genitoriale, troviamo le dinamiche mentali che creano nei figli l’immagine di sé stessi. La mentalizzazione (Fonagy, 2005) è il processo attraverso il quale rappresentiamo gli stati interiori nostri e degli altri (sentimenti, desideri, intenzioni, pensieri): il “cosa prova chi mi sta davanti” e il “come sono io”, fondamento della relazione con i nostri simili. Il neonato ed il bambino possono legittimare a se stessi la propria esistenza di essere cosciente, solo quando e per quegli aspetti in cui i genitori li rappresentano come tali. D. Stern (Stern, 1987) - nella formazione del sé che avviene tra la nascita ed il secondo anno - evidenzia che nella definizione del senso di un sé (intersoggettivo e verbale) possono rientrare solo le esperienze interne che i genitori “vedono”, e che nominano parlando con loro. I vissuti interni del figlio di cui non parlano mai, nella sua mente vengono relegati in uno spazio parallelo di non esistenza. Che si tratti di emozioni, di qualsiasi esperienza di sé o di cosa vede negli altri, i contenuti di coscienza che i genitori non riconoscono e
non rispecchiano con l’interazione verbale - cessano di “esistere” per la coscienza del bambino. Solo l’esperienza legittimata acquisisce spessore e si può radicare nella sua consapevolezza, così da poter essere collocata in un contesto coerente, e mantenuta. Alla nascita e nel corso dei primi due anni di vita, quello di cui i genitori non parlano cessa tout court di esistere per la coscienza. Ma essere “visti” in tutta la portata della propria consapevolezza “vedo che tu ti rendi conto di quello che io so” - nel periodo in cui avviene l’imprinting di coscienza - equivale a dare realtà allo spessore di se stessi di cui si rimarrà consapevoli. Realtà quindi che assume consistenza nel volto con cui ci mostriamo agli altri “mi mostro con la consapevolezza e la responsabilità che tu pensi che io abbia” (Coscienza esterna di relazione), ma anche per come ci cogliamo ai nostri stessi “occhi interni”: la percezione che abbiamo di noi stessi, ciò che rimane della nostra Coscienza interiore. Ne possiamo dedurre che l’attenzione consapevole che nella vita fetale ed alla nascita costituiva una possibile costante “presenza” interna a se stessi (Coscienza interna) - non essendo vista e nominata nel corso dell’imprinting dei primi mesi di vita - decade gradualmente al livello di funzionalità inconscia. Continua ad esistere, solo che noi non lo sappiamo più: ”percepisco qualcosa che sapevo dentro a me stesso, ma in modo così fuggevole, che non sono certo che stia veramente accadendo”. Se la consapevolezza diretta della Coscienza interiore - che potremmo aver sperimentato nell’alba della nostra coscienza - nel corso dell’infanzia incomincia a perdere realtà ai nostri stessi “occhi”, è conseguenza della negazione agita dalla cecità nei suoi confronti dei genitori. Fanno parte di questa realtà - oggetto dei soli “occhi interiori” - percezioni profonde come la connessione mentale, la risonanza empatica, lo scambio diretto di sensazioni e consapevolezze, gli insight unificanti; fenomeni che si verificano quando la mente non è focalizzata sulla decodificazione sensoriale della realtà “esterna”. Queste funzionalità presumibilmente sono molto attive nel feto e nel neonato. E’ così che si potrebbe creare - a partire dalla nascita, e come conseguenza dell’imprinting sulla coscienza trasmesso attraverso i genitori – una spaccatura tra la potenzialità di una presenza a se stessi in una varietà infinita di esperienze mentali possibili (Coscienza interna) e l’identità limitata del sé intersoggettivo sociale (Coscienza esterna). Se così fosse in realtà, si spiegherebbe il senso di separazione, vuoto e contrapposizione, che accomuna la maggior parte degli individui della nostra società (Sozzi, 2011,p.53).
Rivista Italiana online "La Care" Vol 2 No 1 anno 2014
Chiara Sozzi - pagina 5 >>
biblio
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